Fear

privata

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  1. Lazar.
     
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    "Ce la giochiamo a dadi". Proprio come i soldati avevano osato fare. Gli uomini di quella tribù erano tutti riuniti davanti a un grande falò scoppiettante. Il fuoco, elemento di grande importanza per lo sviluppo della civiltà. Erano radunati in un cerchio semi-perfetto, che non lasciava fuoriuscire il calore emanato dall'ardente fiamma centrale. La giornata in quelle caverne non era stata affatto tra le più pesanti. La brama di potere era sopraggiunto poco dopo, quando un uomo si era imbattuto in una volpe trovata priva di vita tra gli inferi di quella vegetazione. Quello era il motivo principale per cui si trovavano tutti lì. C'era una pelliccia calda da potersi accaparrare. Le temperature ultimamente erano cambiate, diventando più brusche, ma d'altronde non poteva essere diversamente; l'inverno era arrivato anche da quelle parti.
    Tra quegli uomini, si poteva scorgere anche il viso di Lazar, che se ne stava seduto a terra con le gambe incrociate e lo sguardo perennemente fisso su quella pelliccia. Era forse il più giovane di quella cerchia di uomini e la persona meno candidata ad ottenerla, senza tenere conto della dea bendata.
    Di fatti, quando lanciarono in aria i due dadi, ricaddero a terra decretando il giovane costruttore il perfetto vincitore. Lazar era riuscito con un po' di astuzia e fortuna a conquistarsi quella pelliccia che da lì in poi l'avrebbe scaldato. Un trofeo che stingeva tra le mani e non smetteva di plaudirsi, neanche quando un uomo forzuto l'aveva cercato di mettere con le spalle al muro. In quello scenario perfetto, era andato in onda una mezza rissa che aveva visto gli uomini ritirarsi nelle loro caverne con escoriazioni ovunque.
    Lazar poteva vantarne ben due sul suo volto: una sul labbro inferiore della bocca e una sul sopracciglio destro. Quella che gli doleva di più era proprio quest'ultima.
    Di fatti non c'aveva dormito per tutta la notte. Per buona sorte, la mattina era giunta più presto dell'atteso. E anche quel giorno Lazar lasciò la sua caverna per cercare di terminare ciò che aveva lasciato in sospeso; l'ennesima barca in legno. A causa di ciò si era procurato dei bastoncelli di legno che a poco a poco stava cercando di acuminare, avvolto dal calore di quella pelliccia. Era inginocchiato sulle sue gambe e con in mano un coltello ben affilato, che gli permetteva di svolgere egregiamente il suo compito. Trascorsero diverse ore, quando Lazar decise di concedersi un momento di pausa. Si fece spazio tra quei ciottoli, ricavandosi un posto dove potersi riposare. Il sonno però prese il sopravvento e Lazar chiuse gli occhi prima dell'imbrunire...


    Edited by Lazar. - 15/2/2016, 16:59
     
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    Era stato divertente assistere a quel particolare regolamento di conti, la sera precedente.
    Non capitavano di rado dinamiche di quel genere, dato che col passare del tempo tutta la comunità si era abituata ad uno stile di vita piuttosto rudimentale e primitivo. Era tutt'altro che raro che un paio di contendenti sollevassero polveroni e attenzioni per combattersi o giocarsi un bottino.
    Era capitato anche a me, a dirla tutta.
    Grazie a quel particolare metodo di disputa mi ero guadagnata un'arma e due canne da pesca. Era molto più utile della diplomazia - che in un'apocalisse è prevedibilmente sempre molto scarsa - e mi permetteva poi di dimostrare valore e merito senza essere penalizzata per la poca loquacità, limitativa chiaramente in un dibattito orale e democratico.
    Appollaiata su una roccia levigata, piuttosto in disparte rispetto allo spiazzo centrale, mi ero goduta tutto lo spettacolo con vivo e pulsante interesse, finendo per concedermi persino un sincero sorriso divertito quando infine il giovanissimo Lazar si era aggiudicato una vittoria più che meritata.
    Chi lo avrebbe mai detto? Oh, io lo avevo fatto.
    Avevo scommesso due scatole di esche e un paio di stivali su di lui, contro la sfiducia di praticamente tutto il resto della comunità... e alla fine avevo vinto.
    Lazar era il ragazzino più in gamba di tutto il gruppo, maturo e sveglio, ai miei occhi era la personificazione vera e assoluta del futuro.
    Noi forse alla fine non ce l'avremmo fatta, ma lui sì. Lo sapevo.
    Non era la prima volta che mi sorprendevo a rivolgere questo singolare e curioso istinto materno nei suoi confronti. Già un paio di volte in precedenza mi ero trovata a difenderlo o proteggerlo da crudeltà e dispetti ingiustificati da parte dei più anziani. Gli avevo risparmiato una spedizione suicida in un accampamento infestato, e un viaggio di non ritorno verso un'area fuori dalle caverne occupata da cannibali. Avevo minacciato gli incaricati all'organizzazione affinché cambiassero idea su quel passatempo sciocco, avevo venduto loro qualche provvista in cambio della vita di Lazar, e alla fine il ragazzo era rimasto al sicuro.
    Credo che lui non abbia mai saputo niente di queste vicende, ma a me non importava, non lo facevo tanto per lui quanto più per me stessa. Avevo bisogno di crederci, in quel futuro che lui simboleggiava.

    Trascorsa la notte, serena e dal sonno pesante grazie ai boccali di birra della sera prima, mi alzai di buon'ora per la solita camminata mattutina.
    Prima della fine del mondo ero abituata a nuotare, per iniziare bene la giornata, ma adesso non me la sentivo più di espormi ad un rischio tanto elevato in mezzo ad un branco di sconosciuti di cui mi fidavo poco, soprattutto considerata l'assenza di Ivan accanto a me. Era lui, in genere, ad infondermi coraggio. Un coraggio che sembrava diminuire giorno dopo giorno da quando mio marito era scomparso.
    Mi limitavo a passeggiare, dunque, così feci lo stesso quel giorno.
    Fu lungo il tragitto che incappai nel relitto ancora in costruzione di Lazar: una barca che ad Ivan sarebbe piaciuta parecchoi – non potei fare a meno di riflettere – e che a me ricordava irrimediabilmente la vita passata e ormai tramontata.
    Mi accorsi del corpo addormentato del ragazzo un attimo prima di posare il palmo della mano sulle assi di legno in lavorazione. Addolcii istintivamente lo sguardo di solito truce, e dimenticando l'imbarcazione mi feci più vicina a lui.
    Il suo volto era ancora marchiato dai lividi e dai tagli coagulati che si era procurato la sera prima. Non mi piaceva vederlo in quello stato, neanche con la consapevolezza di saperlo vincitore della battaglia.
    Silenziosa e felpata come al solito, dunque, mi acquattai accanto a lui tirando fuori dalla tasca uno dei ritagli di stoffa che di solito usavo per lucidare la lama dell'ascia. Lo imbevetti con qualche fiotto d'acqua, e facendo attenzione a non svegliare o spaventare Lazar avvicinai quella medicazione improvvisata al suo volto, prendendo a lavare via i residui di sangue e terriccio che ancora gli sporcavano la pelle.
    Erano gesti semplici, apprensivi e cauti, attenti a non fargli male e a restituire sollievo alla pelle provata.
     
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  3. Lazar.
     
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    Serviva una grande pazienza e molta esperienza nello scalfire il legno e plasmarlo in una buona imbarcazione. Una tecnica che poche persone conoscevano e che Lazar aveva imparato durante l'infanzia grazie a suo zio. I bastoncelli robusti dovevano essere dapprima appuntiti e poi incastrati tra loro, costruendo con vere e proprie fasce la poppa e la prua. Un lavoro carico di fatica, che portarono il giovane ragazzo ad addormentarsi, nonostante la giovane età.
    In quell'arco di tempo in cui Lazar aveva serrato gli occhi, aveva acquisito a poco a poco il soffiare del vento sul suo viso come una specie di leggero tocco. Era sempre più consistente, ma non ci diede poi così tanto peso, in fondo c'era abituato.
    Un respiro quasi delicato, e la mano destra poggiata sul suo petto, metteva ancora di più in risalto la dita che si agitavano in modo simultaneo, quasi ripercorrendo le azioni fatte in precedenza.
    Era una cosa incontrollata simile a un capriccio bizzarro.
    La testa girata su di un fianco, lasciava intravedere le ferite arate nel suo volto a tratti ancora puerile, a dispetto della fitta barbetta che lo cingeva. Ne aveva attraversate tante Lazar, dalla tenera età, quando la vita l'aveva messo davanti a una dura peripezia. Su madre era morta giovane e dopo poco perse anche suo padre. Fu grazie a suo zio che riuscì a risollevarsi e riprendere in mano la sua vita.
    Malgrado il rumoreggiare del vento, avvertì una leggera pressione sul suo volto, come un tocco piacevole, che aveva ridato vigore alla sua faccia.
    Non fece altro che schiudere gli occhi, notando davanti i suoi occhi una figura non del tutto sconosciuta.
    Socchiuse le labbra come per voler pronunciare qualcosa, abbozzando un duttile sorriso.
    Takk, che nella sua lingua stava a significare grazie. Lazar era sempre stato orgoglioso delle sue origini e anche se si trovava in un altro paese faceva fatica a non utilizzare termini che da sempre l'avevano accompagnato. Il suo sguardo poi si poggiò sul viso di Ragh. Faceva parte del suo stesso gruppo e più volte il giovane Hagen si era ritrovato a considerarla come una sorella maggiore.
    Vieni, pronunciò rimettendosi in piedi e cingendo la sua mano, per invitarla a seguirlo verso ciò che poco prima aveva lasciato in sospeso. Poter vedere gli albori di una barca era fortuna di pochissime persone e Lazar, voleva rendere partecipe Ragh di quell'evento, un suo modo per esprimere riconoscenza.

     
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